Disegnato già nel piano regolatore del 1909, firmato dall’architetto Edmondo Sanjust di Teulada, corso Trieste venne fisicamente creato tra il 1924 e il 1930: fu infatti allora che i pini trovarono casa al centro della carreggiata. La nascita ufficiale avvenne tra quelle due date, il 28 febbraio 1926. Le prime testimonianze del quartiere, però, risalgono alla preistoria, quando alcune popolazioni si stanziarono nell’area della Sedia del Diavolo e di Monte delle Gioie. Successivamente, sul monte Antenne (dove l’asilo, millenni dopo, ci avrebbe più volte sbattuto il cancello di ferro in faccia a causa dei nostri ritardi) sorse un abitato sabino: secondo la leggenda Antemnae fu uno dei tre villaggi che subirono il tristemente celebre ratto.
In epoca romana, la zona divenne molto frequentata grazie alla costruzione di numerose catacombe, fra cui quelle di Priscilla. Solo ville nobiliari e casali durante il Rinascimento e nei secoli successivi. Passando al Novecento, dopo decenni di edilizia residenziale di qualità (il periodo dei villini e del Coppedè, per intenderci), negli anni Trenta il quartiere fu oggetto di urbanizzazione intensiva. Grandi condomini, piuttosto pretenziosi, vennero costruiti sulle aree di ville lottizzate allo scopo. Si trattava, per lo più, di abitazioni destinate agli impiegati pubblici – al n. 87 di via Chiana, il primo ascensore realizzato in Italia per una casa popolare. Ma perché al quartiere sia dato il nome di Trieste, occorrerà attendere ancora. È infatti nel 1946 – a repubblica neonata – che il corso battezzerà l’intero quartiere. Teatro di omicidi, scontri sanguinosi e incidenti passati alla storia, nel quartiere Trieste hanno abitato – per periodi più o meno lunghi – Corrado Govoni, Pirandello, Massimo Bontempelli, Natalia Ginzburg, Enzo Siciliano, Eduardo de Filippo e Vasco Pratolini.
E, dal 1965, i miei nonni, che vi rimasero per oltre quarant’anni. Per noi bambine, l’immenso fascino della panchetta in ascensore e il mistero pauroso della profonda crepa in balcone. Che, sopravvivendo alle generazioni, ci fa ancora l’occhiolino.
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