Quattro quarti. Tondo, pieno, compatto. Un quarto di Giulia e trequarti di Gianluca. Così è caduta la scelta sulla Ciociaria, e precisamente su Ferentino: Mina, Michele, Giliberto e Lucia. Una nonna, che sommata a un’altra nonna e a due nonni, dà per risultato la terra del borgo descritto da Orazio. “Se ti piace la tranquillità e il sonno fino al levar del sole, se ti infastidiscono la polvere e lo strepito dei carri e le osterie, ti consiglierei di andare a Ferentino”.
Questa mappa, l’ho vista per anni. Era attaccata al muro del corridoio, sopra il telefono grigio della Sip, nella casa dei miei nonni paterni. La bambina funambolica che ero restava ore e ore affascinata davanti a questa pianta regolare, immaginandovi storie, avventure, volti… Una fotocopia a colori tenui, perfettamente quadrata, raccontava del paese di origine della nonna Mina. Le mura ciclopiche (ma se Polifemo era stupido e crudele, perché esserne fieri?); le tante porte (tra cui la misteriosa “Porta sanguinaria”); un’infinità di chiese (ma Santa Lucia, a ridosso del teatro romano, era davvero invisibile per me, a quei tempi).
Ma, tornando a Orazio, a me e Gianluca in realtà il rumore dei carri e delle osterie piace. E piace parecchio, sicché – dopo la pietra della chiesa di Santa Lucia (raccontata da Serena) – facciamo un balzo di secoli e guidiamo in direzione Monte Reo, verso un piccolo borgo di fine Ottocento.
Costruito su un terreno che faceva parte dei possedimenti della Certosa di Trisulti – o almeno così narrano i documenti notarili del 1600 – il borgo si compone di casali che anticamente ospitavano famiglie di contadini e di allevatori. Un momento di gloria durante la Seconda guerra mondiale, quando l’abitato fu asilo per i tanti che cercavano di fuggire all’odio tedesco. Abbandonato a fine anni Ottanta, oggi il borgo ospita l’agriturismo “Il giardino dei mandorli”. Ed è qui che, finalmente, ci fermiamo a mangiare.
Tante storie ruotano attorno a questo borgo, immerso in un mandorleto. Una delle leggende ha al centro un gruppo di briganti, che lo scelse come rifugio. E, chiaramente, come nascondiglio: tra i tanti tesori razziati in giro per la Ciociaria, anche una semplicissima pentola di rame, colma però di monete d’oro, che i briganti avrebbero sotterrato proprio lì. A distanza di anni, però, gli abitanti del luogo ritrovarono solo le vanghe e i picconi utilizzati per nasconderla.
Ebbene noi, quella pentola, l’abbiamo trovata. Descritto, il suo prezioso contenuto, con pathos sardo, da Flavio Soriga. “Beati siano i luoghi in cui si è curiosi di ciò che non si conosce, beati i regni i cui governanti non si compiacciono della forza delle proprie armi e non si fanno rapire dall’ebbrezza della guerra, beati i mercanti che ricordano agli uomini che tutti gli incontri possono dare vantaggio e nessun individuo e nessun Paese basta a se stesso. (…) Benedette le gonne delle ragazze che nascondono agli occhi la gioia dei sensi e fanno montare il tripudio che sarà. E benedette le donne tutte perché ci sono superiori nel corpo e nello spirito, e se anche non possiamo sostenerlo in pubblico o scriverlo in un saggio, che altrimenti quegli idioti farabutti inquisitori ci taglierebbero la testa, tra noi possiamo e dobbiamo dirlo”. Parola di brigante.